'U Furisieddhru

U FURISIEDDHRU

 

 

Mmienzu ssa strata (ohi)

              c’è nata na Stella,

tantu ch’è gauta (che)

              non si può mirani.

 

Ca hanu mannatu (ohi)

              principi e marchesi,

puru lu duca (ohi)

              ccu dinari assai.

 

Pu ci ha mannatu (nu)

              poveru furisu,

ccu ru suo cantu (ohi)

              facia calani.

 

Ohi Furisieddhru (ohi)

              che ti vid’accisu,

chi t’ha ‘mparatu (ohi)

              ssu dulci cantari?

 

Mi l’ha ‘mparatu (ohi)

              na donna credila,

che m’ha-d-amatu (e)

              non mi vo lassani.

 

Traduzione

Nel mezzo di questa strada

               vi è nata una Stella,

che è tanto alta

               da non poterla guardare.

 

La volevano

                principi e marchesi,

e pure il duca

                con denari assai.

 

Poi si è disposta ad averla

             un povero furisu[1],

e con il suo canto

             la faceva calare.

 

Ohi Furisieddhru

             che ti veda ucciso,

da chi hai imparato

             codesto tuo dolce cantare?

 

L’ho imparato

             da una donna crudele,

che mi ha amato

             e non mi vuole lasciare.

 

Interpretazione

La Stella di cui parla il tipico canto agricolo roggianese del “Furisieddhru” è la Stella del Nord che simboleggia la venuta dei Normanni nel nostro territorio. Essa piace ai principi, marchesi e duchi, ma lei preferisce a loro un “Furiesieddhru” dal dolce cantare. La Stella, ormai assoggetta questo personaggio, preferirebbe vederlo ucciso, ma in seguito gli chiede da chi abbia imparato il suo canto. Il motivo potrebbe alludere all’odio che il popolo roggianese nutriva verso i propri conquistatori, desiderati volentieri morti. Il “Furisieddhru” risponde che lo ha imparato da una donna crudele che lo ama molto e che non lo lascerà mai. Questa parte della canzone popolare potrebbe significare la condizione servile in cui si trovava la nostra popolazione nei tempi antichi. Ella era spietata, ma essenziale, come d’altronde chi aveva insegnato il dolce canto al “Furisieddhru” che sperava lo avrebbe liberato dallo schiavismo. Questa canzone veniva cantata lietamente dai contadini nei campi speransosi di un futuro migliore. Oggi purtroppo questa tradizione è solo conosciuta delle persone più anziane. L’avvento di nuovi mezzi agricoli e la diffusione dei mass media ha fatto cambiare il modo di vivere e di lavorare dei contadini e ciò è stato uno dei motivi perché il “Furisieddhru” è poco conosciuto e soprattutto perché non viene più cantato nei campi.

 

Riferimenti storici

Il canto è di tipo polifonico. Le battute finali sono concluse da una quarta che finisce all’unisono. Ciò è spiegato dal fatto che il canto normanno di questo tipo era molto sviluppato e ritmato. Una sincope è posta alla ripetizione della seconda e sesta battuta. Al tempo però tale figura metrica non si conosceva e si può parlare più che altro di un ritmo giambico seguito poi da un levarsi a trocheo. Si ipotizza che in epoca medievale un cantore itinerante si sia fermato nel castello signorile di Malvito e, vedendo i contadini roggianesi lavorare nei campi, sottomessi al signore di quel castello, abbia composto questa canzone, tramandandosi poi per generazioni. Il “Furisieddhru” apparterebbe alla categoria dei canti di tipo sirventese, cioè del servo che loda il suo padrone, in questo caso la Stella normanna.

 

Esecuzione

La voce principale che intona la melodia deve essere maschile, ma può essere sostituita da una femminile. Quella acuta deve essere femminile mentre la seconda può essere di entrambi i sessi. La voce acuta è di difficile intonazione perché non può essere comune giacchè è la voce che deve indurre all’immaginazione della Stella alta nel cielo. La voce principale iniziava a cantare dal “La” del secondo spazio mentre quella acuta non cantava la prima strofa.

 

Ritmica

Il canto presenta versi in quindici sillabe corrispondenti alla sonorità di endecasillabi. La quinta sillaba è allungata e collegata ad una sillaba atonica e protetica, corrispondente alla seconda, alla sesta e decima battuta ed hanno un ritmo giambico che si eleva verso un trocheo.



[1] Contadino o guardiano di animali che lavora per il fitto e l’alloggio.